Halley VI, quando l’Antartide significa design

Halley VI

Che cosa c’entra una stazione di ricerca sperduta in Antartide con uno dei piú prestigioso riconoscimento di architettura al mondo, ossia il “World Architecture Festival Award”? Apparentemente niente, sembrerebbero mondi opposti come i Poli, tanto per rimanere in tema. In realtà si sposano perfettamente, parola della Gran Bretagna.

Suo, infatti, è il complesso che è arrivato in finale all’importante premio architettonico l’anno scorso, una vera e propria opera di design moderno che si trova nel punto piú sperduto di questo pianeta. Il Polo Sud.

Si chiama Halley VI e ricopre la “bellezza” di 1.500 metri quadrati tra laboratori e alloggi, oltre che a un centro comune di attività sociali. In parole povere è la “sala ricreazione” di questi scienzati così folli da stare in un posto dimenticato da Dio e dove la temperatura non arriva mai oltre lo zero.

Però vivono in una stazione che definire “figata” è poco. In totale ci sono 7 moduli di speciale fiberglass, tutti collegati tra loro e retti su robuste gambe, che a loro volta poggiano su giganteschi sci al fine di evitare lo schianto per eccessivo accumulo di neve. Triste fine delle precedenti Halley Station.

Neanche dirlo, il progetto si è rivelato un lavoro non poco arduo da realizzare, ma i sudditi di Sua Maestà hanno fatto veramente un lavoro eccezzionale. Merito dello studio di Hugh Broughton, il quale si è aggiudicato il concorso per la costruzione, e del colosso ingegneristico di Aecom, riuscendo a completare il tutto in cinque anni, dal 2007 al 2013.

I lavori sono costati meno di 31 milioni di euro, un vero affare quindi, pagati dal National Environment Reseach Council (NERC) e dal Department of Business Innovation and Skills (DBIS). E, per quanto possa sembrare assurdo costruire una base all’ultima moda laggiù, il gioco vale assolutamente la candela.

Dalla prima metà del secolo scorso, infatti, le Halley Station hanno segnalato in anticipo importanti mutazioni climatiche come lo scioglimento dei ghiacci o, nel 1985, il buco nell’ozono. Importante, quindi, dare la giusta importanza alla struttura e soprattutto a chi ci lavora.

Per la realizzazione si è ricorsi perfino alla psicologia, con la scelta di colori non violenti, per aiutare i ricercatori che si trovano lì a socializzare tra di loro. La cosa peggiore che può accadere in un posto ai confini del mondo è isolarsi in se stessi, ottima via per il manicomio, per cui Halley VI ha tutti i comfort necessari agli attuali 71 scienziati presenti (in estate arrivano fino a 75) per vivere serenamente e lavorare senza eccessivo stress.

Quasi quasi ì un’idea per le prossime vacanze. Tanto il mare è sempre quello…

timothy dissegna

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